La saggezza rabbinica nel “Padre Nostro”

In un articolo percedente (clicca qui) ho proposto una selezione di brani del Nuovo Testamento che trovano un formidabile riscontro e parallelismo nella letteratura rabbinica nota come Talmud e Midrash. Gli insegnamenti di Yeshùa sono stati davvero saggi e “unici” diremmo, eppure è straordinario constatare come egli, ripieno del Logos divino, abbia mostrato una “completa saggezza ebraica” che al suo uditorio poteva risultare già familiare. Nulla di nuovo, insomma, nelle parole di Yeshùa.

Si è detto nell’articolo precedente che la formazione rabbinica di Yeshùa non va confusa con la sua conoscenza delle Scritture, in quanto per stessa ammissione dei Giudei, Yeshùa conosceva benissimo le Scritture «senza aver fatto studi» (Gv 7:15), eppure allo stesso tempo ha dimostrato di avere una grande conoscenza della tradizione orale rabbinica che veniva insegnata solo nelle scuole. Sicuramente Yeshùa deve aver studiato a scuola, come era prassi per l’infanzia di ogni bambino Ebreo, ma la conoscenza che Yeshùa ha “maturato” delle Scritture superava di gran lunga quelle dei Rabbini. Yeshùa, in realtà, non ha “maturato” la conoscenza della Bibbia perché l’aveva già innata.

Nel medesimo Vangelo giovanneo si fa menzione per ben tre volte di una «dottrina». Alla domanda dei Giudei che non riuscivano a spiegarsi come mai Yeshùa conoscesse così bene le Scritture senza averle mai studiate, egli rispose loro, dicendo: «La mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha mandato. Se uno vuol fare la volontà di Lui, conoscerà se questa dottrina è da Dio o se io parlo di mio» (7:16-17). Qualche capitolo più avanti leggiamo che «il sommo sacerdote interrogò Gesù intono ai suoi discepoli e alla sua dottrina» (18:19).

Ora, per «mia dottrina» e «sua dottrina» non si intende “un insegnamento diverso” rispetto a quello che Scribi e Farisei insegnavano, ma “un modo diverso di insegnare” cose già note nell’Ebraismo. In che senso “un modo diverso di insegnare”? Il senso lo leggiamo in Mt 7:28-29: «la folla si stupiva del suo insegnamento, perché egli insegnava come uno che ha autorità e non come i loro scribi». Perciò, la “sua dottrina” (che non era sua) riguardava un approccio diverso all’insegnamento. Questo approccio diverso era dovuto al fatto che in lui risiedeva il Logos divino.

Secondo la concezione rabbinica, le persone dotate di istruzione tendono a considerare con sufficienza quelle che ne sono prive e pensano che queste ultime non siano in grado di arrivare a opinioni chiare o a idee giuste. Non c’è dubbio che tutto ciò sia giustificato quando si tratta di settori che richiedono vari anni di specializzazione: nel campo scientifico o in quello della Halakhah, le persone di scarsa istruzione hanno davvero forti limiti. Vi sono tuttavia altri canali che consentono una comprensione della vita e dei valori tale da permettere a persone semplici che cerchino con serietà e sincerità la propria strada, di arrivare in modo intuitivo alla comprensione di aspetti della verità. A chi mi riferisco? In special modo a quegli Ebrei osservanti che, nonostante la loro mancanza di istruzione specifica, sono in grado di assorbire dall’atmosfera di Torah in ci vivono una conoscenza profonda e vera delle basi dell’Ebraismo. I saggi Ebrei nutrivano grande stima per i proverbi delle persone semplici. A tal proposito, non manca di leggere nel Talmud delle frasi di esordio di questo tipo: «disse un tale» (Sanhedrin 7b), in cui si fa menzione di un detto pronunciato da una persona sconosciuta, magari un ortolano o un pescivendolo, ma che per il talmudista ne è valsa la pena citare per il grande valore e insegnamento contenuto in quel “detto”.

I Rabbini e gli Ebrei in generale hanno da sempre nutrito una grande stima nei confronti della saggezza intuitiva, e questo sembra essere ben marcato proprio dell’opinione che i Giudei avevano di questo giovane uomo, figlio del carpentiere, che, nonostante non avesse mai fatto studi, conoscesse le Scritture «così bene». Un Ebreo che teme Dio ed osserva i Suoi precetti, anche se non ha mai avuto la possibilità di studiare la Torah in modo sistematico, riesce spesso ad arrivare ad idee che hanno basi profonde nella tradizione religiosa. Con Yeshùa la cosa fu più rafforzata, perché i suoi insegnamenti non riguardavano la semplice saggezza intuitiva, ma la saggezza «di Colui che mi ha mandato», il Logos che è venuto nella carne.

I Rabbini hanno da sempre considerato la Torah come un grembo materno, luogo in cui risiede il “mistero della vita”:

«Rabbi Simlai disse: “A cosa assomiglia il bimbo, nel ventre della madre? […] (il bimbo) guarda con attenzione da un’estremita all’altra del creato […] e gli viene insegnata tutta la Torah […] ma quando si avvicina il momento di venire alla luce, arriva un angelo, gli passa la mano sulla bocca e gli fa dimenticare tutta quanta la Torah» (Niddah 30b)

Copyright © 2018 – PH Daniele Salamone (Makpelah, Israele, presso tomba dei patriarchi).

Che senso ha, dunque, insegnare la Torah ad un feto, se non gli è possibile portare con sé quegli insegnamenti una volta che viene alla luce del mondo? Perché insegnargli qualcosa che verrà dimenticato così velocemente? Rabbi Simlai spiegò che ogni Ebreo nasce con la predisposizione naturale a studiare la Torah: ha una parte ed un’eredità nella Torah che gli è stata data ancora prima di nascere, ed anche se è costretto dall’angelo a scordare questi insegnamenti, essi rimangono nel profondo del suo cuore ed attendono il momento di risvegliarsi tramite lo studio o per mezzo della convivenza in un ambiente favorevole al loro sviluppo. I saggi trasformano, col loro studio, il sapere impartito a forza in un sapere effettivo e vivo, ma anche l’Ebreo semplice e poco istruito ha la sua parte nella Torah. C’è chi studia la Torah acquisendone una conoscenza profonda, ma ci sono altri che, pur mancando di un’istruzione formale in questo campo, sono dotati di una saggezza religiosa di genere intuitivo (ovvero la rivelazione dello Spirito) che scaturisce dalla loro stessa interiorità. Da quando sono stati seminati nel loro cuore i princìpi fondamentali, sono incosciamente portatori di saggezza, che viene espressa in forma di proverbi, detti popolari e parole di conoscenza e saggezza.

In Yeshua è avvenuto qualcosa di superiore: nessun Ebreo ha imposto a Yeshùa la Torah come una materia estranea al suo spirito e diversa dalla sua natura, perché la Torah è stata una cosa che già c’era in lui fin dal grembo materno. Nell’uomo Yeshùa albergò il Logos divino, e cioè la Torah vivente che non ha bisogno di istruzione, perché è già l’Istruzione. Quando Yeshùa è nato, nessun “angelo” è passato per tappargli la bocca facendogli dimenticare tutto il mistero della vita che è racchiuso nella Torah, anzi, lo ha lasciato venire al mondo dotato di tutta quella saggezza divina che Giovanni chiama Logos, o «verbo», e che ad ogni comune bambino viene fatta dimenticare al momento del parto. I Giudei, apprezzando la formidabile preparazione di Yeshùa nonostante non avesse mai fatto studi delle Scritture, hanno indirettamente affermato che in lui risiede proprio quel Logos di cui è solo prerogativa del Messiah possedere! Yeshùa rispose: «La mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha mandato». Ecco, Yeshùa ha palesemente detto: «conosco così bene la Scrittura senza aver fatto studi perché io sono il Messiah»..

Detto questo, possiamo ravvisare dei non casuali parallelismi di parole ed intere espressioni nella nota preghiera del “Padre Nostro” e la letteratura rabbinica, letteratura che al tempo di Yeshùa non esisteva ancora in forma scritta, ma che veniva insegnata e tramandata solo oralmente:

«Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo, anche in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano; rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori; e non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal maligno» (Mt 6:9-13 – NRV)

Il brano biblico di cui sopra trova il suo parallelo in Lc 11:2-4:

«Padre, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano; e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo a ogni nostro debitore; e non ci esporre alla tentazione»

La versione di Luca è più breve, perché omette alcune parti che invece in Matteo sono presenti. Dunque, vediamo più da vicino i parallelismi che vi sono nel Nuovo Testamento e la tradizione rabbinica di cui Yeshùa ne era un grande cultore.

  • «Padre nostro che sei nei cieli»: l’esordio di questa istruzione alla preghiera è riscontrabile in vari passaggi della letteratura rabbinica che ripete esattamente le stesse parole: «Padre nostro che sei nei cieli» (Yoma 85b; Sotah 49:b; Pirqei Avot 5:20; Midrash Vaiqrà Rabbàh 32).
  • Le parole «venga il tuo regno» trovano riscontro nella preghiera kaddista, che dice: «possa il regno di Dio essere stabilito durante i giorni della tua vita», vale a dire: “possa il regno di Dio venire mentre sei vivo, ora, e benedire la tua vita”. Tuttavia, con questa espressione, Yeshùa prega il Padre affinché mandi presto lo Spirito Santo, il regno di Dio sulla terra che agisce da dentro i santi, cioè attraverso le persone che compongono il suo Tempio sulla terra. Per “regno di Dio” non bisogna intendere un regno secolare, ma un regno spirituale in Yeshùa il cui Spirito è adesso in tutti coloro che lo hanno ricevuto.
  • «Sia fatta la tua volontà, come in cielo, anche in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Si legga Berachot 29b: «esprimi la Tua volontà e consola coloro che stanno sotto [al cielo] e [provvedi a] tutti i loro bisogni».
  • «Rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri deibitori». In Shabbat 151b è scritto: «Colui che è misericordioso verso gli altri, Dio sarà misericordioso nei loro confronti». Se noi rimettiamo i debiti ai nostri farà Egli farà altrettanto con noi. Se non rimettiamo i debiti ai nostri debitori, Egli farà altrettanto con noi.
  • «Non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal maligno» è tratto da Berachot 80b: «non portarmi in tentazione e portami via dall’ingiustizia […] e salvami dal maligno». Per la concezione ebraica, il “maligno” è l’inclinazione al male insita nell’uomo. Infatti, tale inclinazione è collegata alla tentazione che viene «dalla nostra concupiscienza».

Ebbene, Yeshùa non insegnò nulla di “nuovo”, ma traendo spunto dalla stessa tradizione rabbinica già esistente, ispirata da Dio e prendendo qualcosa quà e là, ha introdotto “un nuovo modo di pregare” e di “insegnare”. Il modello di preghiera proposto da Yeshùa riassume l’indispensabile da chiedere al Padre, non il superfluo. Ecco come Yeshùa era pienamente carico di “saggezza ebraica”, e totalmente traboccante di “saggezza divina” (Logos) che non poteva essere appresa in nessuna scuola (cfr. Gv 7:15) se non che fosse direttamente innata.

Una risposta a “La saggezza rabbinica nel “Padre Nostro””

  1. COMMENTO RIMOSSO PER VIA DI UN LINGUAGGIO SCURRILE E VOLGARE.
    L’INDIRIZZO IP DELL’UTENTE E’ STATO SEGNALATO ALLE AUTORITA’ COMPETENTI.
    LOCALITA’ DELL’UTENTE ANONIMO: “BORGARETTO”.

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