Il curioso caso di Yefte: perché si stracciò le vesti? #2 Parte

Si riapre il caso di Yefte. Questa seconda parte dello studio non è stata spiegata nel mio ultimo libro, ma preferisco farlo in questa sede spinto dalle continue critiche che ricevo all’ultimo video caricato del mio canale Youtube. Qui si intede suggerire una semplice spiegazione sulla questione della figlia di Yefte che venne assegnata al servizio di Yahwéh rimanendo vergine per tutta la vita e che ancora oggi se ne commemora il suo ricordo. Chi non ha ancora letto il mio ultimo libro (vedi immagine a sinitra), può leggere un’estratto di quest’ultimo che ho a mia volta trascritto come articolo: Il curioso caso di Yefte che “sacrificò” sua figlia: in che senso? #1 Parte. Chi non l’ha ancora letto può farlo adesso cliccando qui. Leggendo questa prima parte si avrà una visione più ampia dell’argomento trattato in questo secondo capitolo.

Il lettore avrà ben compreso dall’articolo precedente che Yefte fece un voto a Yahwéh, dicendogli: «Se Tu mi dai nelle mani i figli di Ammon; chiunque uscirà dalla porta di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vincitore sugli Ammoniti, sarà di Yahwéh oppure l’offrirò in olocausto”» Gdc 11:30-31

Yefte vinse contro gli Ammoniti e, una volta ritornato a casa si ritrovò d’innanzi proprio sua figlia, che «non aveva conosciuto uomo» (cioé era ancora vergine). A questo punto, come Yefte la vide «si stracciò le vesti e disse: “Ah, figlia mia! Tu mi riempi d’angoscia! Tu sei fra quelli che mi fanno soffrire! Io ho fatto una promessa a Yahwéh e non posso revocarla!» (v.35).

L’antica usanza dello “stracciarsi le vesti” prevedeva la sua applicazione in due/tre circostanze: (1) o per lutto, (2) o per indignazione, (3) o per riverenza. Si stracciò le vesti Giosué quando «si gettò con il viso a terra davanti all’arca di Yahwéh» (Gs 7:6), e altrettanto fece il sommo sacerdote d’innanzi a Gesù accusandolo di bestemmia per essersi proclamato non semplicemente un figlio di Dio, ma il Figlio di Dio (Mt 26:65). Giosué si tracciò le vesti come segno di riverenza d’innanzi all’arca di Yahwéh, il sommo sacerdote invece se le tracciò per indignazione di quello che aveva appena sentito dire a Gesù.

Alcuni sostengono in modo errato e banale (da come si può avincere anche dai commenti al mio video linkato sopra) che Yefte si stracciò le vesti per fare lutto nei confronti della figlia, convinti che l’uomo la offrì come olocausto a Yahwéh. Ma dallo studio precedente si è chiarito che così non è stato.

jephthah-and-his-daughterYefte non si tracciò affatto le vesti per lutto. Si fa lutto dopo una morte, non prima. Quando mai si fa lutto prima che una persona muoia? Forse le presunte vittime in questione, quelle più scaramantiche e superstiziose, “toccherebbero ferro”. Yahwéh, invece, avrebbe potuto dire benissimo a Yefte di lasciar perdere, che non era il caso di sacrificare un essere umano dato che una simile usanza Lui la detestava. Fare lutto sarebbe stato del tutto inutile perché in quel momento in cui si stracciò le vesti la figlia non era “morta”, ma viva e vegeta, solo parecchio triste pensando al fatto di non potersi mai sposare. Invece, l’atto di Yefte sullo stracciarsi le vesti fu bivalente, vale a dire che (1) da una parte si indignò con se stesso perché sembra essersi pentito di aver fatto una promessa (magari senza rifletterci sopra) che non poteva revocare, Yahwéh non ha alcuna “colpa” dato che il voto è stato fatto per iniziativa dello stesso Yefte, mentre Yahwéh non apre bocca, ma tacendo evidentemente ha acconsentito; (2) allo stesso tempo, osservando il suo voto, si stracciò le vesti anche per riverenza circa l’adempimento di ciò che aveva promesso a Yahwéh. Non poteva rimangiarsi la parola, per cui osservò con riverenza il Suo voto. Questo suo voto lo turbò così tanto alla visione della figlia mentre rientrava in casa che magari avrebbe preferito vederla condurre una vita normale, sposandosi ed avere figli.

Detto questo, in quale cultura antica e/o moderna si faceva o fa lutto prima che una persona muoia? Sicuramente non in quella semitica né in quella occidentale. Inoltre, che motivo avrebbe avuto la ragazza di trascorrere i suoi presunti ultimi giorni di vita con le amiche e allo stesso tempo preoccuparsi di morire vergine? Non si poteva o non si doveva morire vergini? Era una vergogna? Quanti casi di decessi di ragazze vergini ha potuto incontrare la storia dell’umanità? Se non miliardi, sicuramente centinaia di milioni di casi! Come le migliaia e migliaia di bambine e ragazzine che hanno perso la vita ad Aushwitz. O come in quei casi di incidenti stradali o incidenti in generale. Insomma, chi è vergine non è esente dalla morte.

Il contesto della vicenda suggerisce invece molto chiaramente che la figlia di Yefte pianse la verginità, non per la sua vita:

«Poi disse a suo padre: “Mi sia concesso questo: lasciami libera per due mesi, affinché vada su e giù per i monti a piangere la mia verginità con le mie compagne». Egli le rispose: “Va’!” e la lasciò andare per due mesi. Lei se ne andò con le sue compagne e pianse sui monti la sua verginità. Alla fine dei due mesi, tornò da suo padre; ed egli fece di lei quello che aveva promesso. Lei non aveva conosciuto uomo. Di qui venne in Israele l’usanza che le figlie d’Israele vadano tutti gli anni a celebrare la figlia di Iefte, il Galaadita, per quattro giorni» Gdc 11:37-40

Apprendiamo dalla Scrittura che trascorsi due mesi in compagnia delle amiche dopo aver chiesto il permesso al padre, da allora in poi diventò consuetudine di tutte le ragazze «celebrare» la figlia di Yefte in una festa di quattro giorni. Ebbene, secondo i critici sarebbe usanza ebraica quella di «compiangerla». Ma mi vien da pensare: non sarebbe un pò macabro celebrare un sacrificio umano che Yahwéh stesso definiva come pratica abominevole? Un pò come avverrebbe oggi con la “festa delle donne” dell’8 Marzo, dove in realtà non ci sarebbe nulla di che festeggiare conoscendo le presunte origini di questa ricorrenza: una leggenda molto celebre narra che questa “festa” sia stata istituita nel 1908 in memoria delle operaie morte nel rogo di una fabbrica di New York, la Cotton. In realtà, appunto, si tratta solo di una leggenda nata negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale (vedi qui). Eppure, nel caso di Yefte, non si tratta di una mera leggenda né di un testo allegorico né poetico né simbolico. Si tratta invece di un resoconto storico che gli stessi ebrei ancora oggi ricordano (senza versare una sola lacrima) sia per tramando orale che scritturale nonostante siano trascorsi almeno oltre 3000 anni. Ma esaminiamo ancora più da vicino la questione:

La traduzione cattolica ufficiale CEI (Conferenza Episcopale Italiana) mal traduce il verbo ebraico tanàh (scritto in Gdc 11:40 al plurale: תַנּ֕וֹת tannòt) con «piangere», stessa cosa fa la Nuova Diodati, mentre la Diodati traduce con «far lamento». In realtà il verbo tanàh non vuole significare «piangre, lamentarsi», ma bensì «celebrare, ricordare, raccontare», come ben traducono Riveduta e Nuova Riveduta.

Adesso, vediamo insieme più da vicino cosa dice il più autorevole dizionario di ebraico e aramaico biblico (in lingua inglese) Koehler & Baumgartner, solo per citarne uno. Di seguito il testo inglese come in originale:

תנה: ? to be compared with II שנה, also for corresponding forms in the Aramaic dialects; on this vb. see also Wagner Aram. 327 (with bibliography); according to Lemaire Inscr. Hebr. 1: 103 the vb. is also found in the Heb. inscription, Lachish 3: 12: as a pi. meaning to narrate, but that is completely uncertain; for another way of interpreting this difficult occurrence see Albright BASOR 82 (1941) 20; also Pritchard Texts 322a; see also Gibson Textbook 1: 38, 39.

pi. (Jenni PiÁel 248): impf. יתנו, inf. תַנּ֕וֹת: to recount, with acc. of the thing Ju 5:11 ; with ל of the person, meaning for Ju 11:40; for both instances see: Hans Zirker Die kultische Vergegenwärtigung der Vergangenheit in den Psalmen (BBB 20; 1964) 20: תנה pi. refers to repetition within an antiphonal performance;

Il dizionario di cui sopra ci insegna che anzitutto questo lemma si avvicina a quel dialetto Aramaico (Aramaic dialects) che rende l’idea del «narrare» (meaning to narrate). In aggiunta si esplica che תַנּ֕וֹת, tannòt indica il «raccontare… della persona» (to recount … of the person) facendo riferimento proprio a Giudici 11:40 [«il che significa per»: (meaning for Ju 11:40)]. Nessun «compianto», nessun «lamento», nessun versamento di lacrime amare (e nemmeno dolci o salate).

figlia di yefteSi può comprendere dal testo biblico che la giovane ragazza chiese al padre il permesso di prendersi un sorta di “pausa di riflessione” di due mesi prima di “dare i voti”. Magari non era nei suoi progetti per il futuro fare la “suora” (mi si permetta questa terminologia, pur non essendo cattolico, ma credo sia la più immediata da comprendere), e magari non sapeva che il padre aveva fatto una promessa a Yahwéh che non aveva rivelato ancora a nessuno. Anzi, se lo avesse saputo, di casa non avrebbe nemmeno uscito un capello finché non fosse stato il padre ad entrarvi coi suoi piedi. E poi, altra possibilità, non è detto che la figlia di Yefte fosse devota, ma poiché si doveva fare per come il padre diceva, allora si sarà dovuta ingoiare questa patata bollente («ed egli fece di lei quello che aveva promesso»). Non sappiamo come si sono evolute le cose dopo, ma nonostante quest’ultima sia una possibilità, la escuderei perché le Scritture descrivono Yefte come un eroe, un uomo giusto e non come un barbaro che sacrificava esseri umani. Inoltre, per Yahewéh stesso era importante che la persona che svolgeva il proprio servizio a Lui fosse mentalmente dedicata con riverenza e non come una cosa fatta per imposizione forzata.

Inoltre è consuetidine delle Scritture essere dettagliate in certe circostanze assai delicate e particolari come queste, infatti non si legge da nessuna parte che «la figlia di Yefte venne fatta passare per il fuoco».

Come dicevo poc’anzi, la parola mal tradotta e male interpretata con «lamento» in Gdc 11:39, significa invece «raccontare» o «da raccontare ancora», nel senso di ricordare degli eventi passati. Quindi, «compiangere, lamentare» è una traduzione letteralmente fuori luogo e assai speculativa.

Quindi, è diventata una consuetudine tra le figlie d’Israele ricordarsi la vicenda della figlia di Yefte. Come nell’usanza pagana pseudocristiana di oggi del ricordarsi la nascita di Gesù per il 25 dicembre (data che oltre tutto non corrisponde al vero). Commemorare e piangere i «defunti da sacrificio» non fa per niente parte della cultura e tradizione ebraica.

2 Risposte a “Il curioso caso di Yefte: perché si stracciò le vesti? #2 Parte”

  1. Questa è solo la tua personale interpretazione.Dei sacrifici,umani,che il dio di Abramo,Isacco &,giacobbe ordinava non solo sono menzionati nella Bibbia,ma diversi studiosi ,e non solo “Biglino,ne parlano nei loro scritti.e tutti i testi di “Storia-religiosa ,parlano di “sacrifici”umani agli Dei,siano essi di YHWH,di Shiva,e quant’altri.Nella Messa “Cattolica”ogni giorno ,più volte,l’uomo(Cristo),viene offerto e immolato sull’altare al “Dio”,sotto le spoglie di una semplice “ostia”che metaforicamente rappresenta e sostituisce,il Sacrificio Umano gradito a Dio e gli Dei.La cosa strana è che nonostante ciò,l’umanità è e continua ancora ad essere succube di false promesse,e inganni.Questo presunto Dio non è ancora sazio dei sacrifici materiali ,fisici e spirituali che l’umanità da lui creata compie quotidianamente,dove oggi come ieri,il popolo “eletto”soffre,stenta a vivere ,mentre le classi Politico-Sacerdotali godono di pienezza economica ,di ottima salute e potere.La Storia si ripete..come il Giorno succede alla notte e viceversa.

    1. Qui non si interpreta, su discute la letteratura, non la teologia.
      Quello che si fa nella messa cattolica, è quanto di più blasfemo si potessa fare, compreso il “battesimo degli infanti” che ricorda i sacrifici di bambini a Molok.
      E’ verissimo, i figli d’israele hanno più volte sacrificato i babmini sul fuoco, ma non sotto richiesta di Yahweh, ma sotto l’influenza dei popoli pagani, pensando di fare cosa gradita Dio.
      Si preoccupi di leggere la Bibbia, non i liibri dei “diversi studiosi”.

      “Poiché il suo morire fu un morire al peccato, una volta per sempre; ma il suo vivere è un vivere a Dio”. Romani 6:10

      “il quale non ha ogni giorno bisogno di offrire sacrifici, come gli altri sommi sacerdoti, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo; poiché egli (Gesù) ha fatto questo una volta per sempre quando ha offerto se stesso”. Ebrei 7:27

      “In virtù di questa «volontà» noi siamo stati santificati, mediante l’offerta del corpo di Gesù Cristo fatta una volta per sempre“. Ebrei 10:10

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